Neve - Parte 1
Giornata fortunata, dal cielo plumbeo solo nevischio leggero.
Shane si soffermò ad osservare il paesaggio. Il pendio montano scivolava verso valle tra lucidi prati circondati dai boschi fitti e coste di roccia spigolosa, nude, scintillanti per il ghiaccio. La neve ricopriva ogni cosa, le solide chiome dei faggi e dei frassini, i cespugli fitti di ginepro e pini mughi. Un bianco splendore che rendeva l'aria abbacinante e quasi priva di suoni, il vento leggero sfiorava a malapena i rami curvi sotto il peso della neve e produceva quello che somigliava a tutti gli effetti ad un sospiro. Ma era quiete ciò che trasmetteva. La montagna d'inverno aveva un suono dolce ed un profumo pulito che l'uomo amava oltre ogni dire.
Da quando era morto Acris era diventato il suo posto speciale. In città, al Tempio, sembravano averlo quasi inteso come una punizione. Controllo dei confini, non importava la stagione, non importava se faceva un freddo tale che persino il respiro mutava in una pioggia di cristalli di ghiaccio. Lui, il Senza Compagno, sarebbe dovuto andare ugualmente. Pellicce e cuoio foderato, poche provviste e una mappa approssimativa. I confini sulle montagne erano delimitate solo dai luoghi che nessuno era mai riuscito a raggiungere. Silenzi troppo chiassosi e vie impraticabili, percorsi solo da orsi e capre. Shane però non aveva protestato, non una sola parola, ad ogni ordine era seguita una partenza. Aveva ridisegnato le mappe con punti di riferimento, crocevia, nuovi elementi geografici. Persino il bibliotecario era rimasto a tal punto sorpreso da averne ordinate svariate copie per la biblioteca della città.
Shane sapeva come muoversi, sapeva ormai comprendere ciò che la montagna gli sussurrava. Gli scarsi rifugi presenti erano stati da lui sistemati e resi agibili e comodi. E in quei silenzi, in quelle tempeste o in quelle giornate di fresco sole e di cinguettio frenetico, lui riusciva a tollerare l'assenza del suo unico amico.
Si passò la mano guantata sul viso, scrollandosi di dosso il leggero strato di neve che si era posata sulla barba di qualche giorno e decise di riprendere il cammino.
La luminosità lattiginosa del giorno andava affievolendosi e ad una prima occhiata risultava difficile scorgere il sentiero di traversata che avrebbe dovuto trovarsi in quella zona. La roccia a forma di punta di freccia era ben visibile alla sua sinistra, qualche decina di metri più in basso, inequivocabile la sua cima dipinta di rosso. Ovviamente la pista era stata seppellita dalla neve dei giorni precedenti, persino il laghetto era sparito sotto lo strato bianco, il suo limitare poteva notarsi solo dalla cornice di alberi disposta in un cerchio troppo perfetto attorno ad una spianata totalmente candida.
Sistemò meglio lo zaino che aveva sulle spalle e mosse cautamente i suoi passi. Il rifugio non era lontano, buona cosa raggiungerlo prima che facesse totalmente buio. Grazie alle ciaspole riusciva a muoversi sulla neve fresca con relativa facilità. Scese dalla cuna zigzagando, i due lunghi bastoni lo aiutavano a bilanciarsi. La coltre di neve era morbida e scricchiolava sotto il suo peso. Alto intorno a un metro e novanta, con una corporatura di solidi muscoli, a volte nemmeno le grosse ciaspole erano sufficienti a non farlo affondare, non poteva permettersi distrazioni. Avanzò fino a raggiungere il limitare del lago sepolto e si avviò verso oriente, appena sotto la roccia a punta di freccia, il sentiero ancora invisibile. Un passo dietro l'altro, avrebbe raggiunto il rifugio in poco meno di mezzora. Mentre avanzava qualcosa attirò la sua attenzione. Un rigonfiamento irregolare alla sua sinistra, una roccia affiorante dallo strato bianco? Eppure aveva una forma bizzarra, schiacciata, definita, un po' troppo antropomorfa. Non la ricordava dal suo ultimo passaggio.
Si accostò. Forse uno scherzo della vista e lo schermo della neve che andava gradatamente aumentando, ma gli parve che la roccia respirasse.
I piccoli fiocchi si facevano corposi e numerosi, danzando davanti al suo sguardo come pallide farfalle. La luce sempre meno intensa. Un grosso orso dormiente fuori dalla sua tana? Sarebbe stato più saggio girargli attorno. La roccia, o l'orso, emise infine un mugolio. Decisamente troppo umano per entrambi.
Ma che diavolo? Shane si chinò e spazzolò via la neve con il braccio. Una zazzera bionda, disordinata, pelle d'un insano colore grigiastro. L'uomo era vivo, ma non certo in buone condizioni.
Conficcò i bastoni sullo strato di neve, si tolse lo zaino e terminò di liberare il corpo dallo strato di ghiaccio e neve che lo aveva ricoperto, infine lo girò supino.
Aveva le labbra blu e un pallore assolutamente mortale. Si tolse uno dei guanti e gli sfiorò la gola in cerca del battito cardiaco. Eccolo lì, debole e lento. Il respiro era così fiacco che neanche si condensava in vapore. Le vesti che indossava erano nascoste da strati di fogliame e rametti tenuti insieme da un curioso intreccio di corteccia. Una sorta di vestiario improvvisato, come se lo straniero si fosse ritrovato in alta montagna nudo e impreparato.
Che fosse uno dei banditi che imperversavano in quelle zone? Non era da loro avventurarsi tanto in alto e in quella stagione, ma non poteva certo escluderlo. E se fosse un fuggitivo? Un detenuto scappato dalle prigioni, che aveva tentato la salvezza sulle montagne? Poco furbo da parte sua farlo proprio d'inverno.
«Merda!» imprecò sottovoce. Si tolse la pesante cappa e vi avvolse l'uomo, si piazzò lo zaino sul torace e, sbuffando per lo sforzo, se lo caricò in spalla.
Raggiunse il rifugio quasi due ore dopo. Ansimando per la fatica. Le braccia e le gambe che formicolavano dolorosamente, la faccia immobilizzata dal gelo. Sbatteva le ciglia nel tentativo di togliersi le croste di ghiaccio. Quando il piccolo riparo di legno gli apparve davanti ringraziò tutti gli Antichi Dei, anche se ormai morti e sepolti.
Entrò e depositò il suo gravoso fardello sul ripiano di legno che fungeva da letto. Si tolse nuovamente i guanti per controllargli i segni vitali. Se era morto dopo tutta la fatica che aveva fatto per trasportarlo si sarebbe rimangiato i ringraziamenti divini. Il battito c'era ancora.
Si tolse lo zaino e lo poggiò vicino alla porta. Ora doveva razionalizzare bene il da farsi. Per prima cosa accese il fuoco. La legna vicino al camino era asciutta e pronta. Dovette aprire la cappa e poi provvedere a sistemare le esche. Pochi minuti e le fiamme scoppiettavano, rilasciando nel piccolo ambiente una piacevole luminescenza rossastra. Mise a sciogliere della neve su una pentola e nel frattempo iniziò a togliersi gli strati di abiti che indossava. Il giaccone rivestito di pelliccia, il doppio pantalone di cuoio impermeabile, sganciò le ciaspole e sfilò gli stivali.
L'aria all'interno del rifugio divenne rapidamente calda.
Accese la lampada ad olio e la piazzò accanto al letto e infine si dedicò all'uomo ancora privo di conoscenza. Delinquente o fuggitivo che fosse non poteva certo lasciarlo morire. Il se stesso del passato forse l'avrebbe fatto, ma era cambiato, lo doveva ad Acris.
Tolse il mantello e cominciò sciogliere il rivestimento di foglie e rami per mettere a nudo abiti assolutamente fuori luogo. Pantaloni di un tessuto elastico e leggero, una giacchetta priva di maniche con bottoni argentati, gli stivali avevano le suole rinforzate ma il cuoio era morbido, traforato sulle caviglie. Shane corrucciò la fronte. Da quale oscuro luogo delle Terre Abitate mai proveniva quel tipo? Senza il rivestimento silvano poté notare anche la corporatura straordinariamente muscolosa dello straniero. Ad occhio sembrava alto quanto lui, muscoloso, forse più di lui. Lunghe gambe nerborute, pettorali torniti, grossi muscoli sulle braccia. Quel tipo era un guerriero, proprio come lo era lui, su questo non c'era dubbio. Ma i suoi abiti strambi non lo riportavano a nessuno dei quattro Ordini Guerrieri delle Terre Abitate.
Terminò di spogliarlo per vedere se aveva delle ferite. Numerose le cicatrici sulla pelle, alcune da taglio certamente, altre circolari, piccole e nitide, forse da quadrello, ma difficile a dirsi, l'epidermide sembrava rimarginata come a seguito di una bruciatura, forse era stato torturato con un sottile ferro rovente? Aveva molte escoriazioni e dei brutti tagli sulle braccia e sui polpacci. Lo voltò di schiena e infine notò all'altezza della scapola destra altri fori, solo che la pelle sembrava rossa e grumi di sangue coagulato la costellavano. La ferita sembrava piuttosto fresca. Shane lo fece adagiare a pancia in giù e afferrò la lampada, avvicinandola ai piccoli fori. Da uno di essi, proprio sopra l'osso della spalla, sporgeva appena il bordo di qualcosa di metallico. Il Sacerdote si morse il labbro inferiore, una punta di freccia? Troppo piccola. Un brandello di ferro che avrebbe comunque dovuto togliere, se non voleva che la ferita si infettasse.
Shane osservò con sospetto gli altri due fori e tastò con dita delicate tutt'attorno. Pezzi di metallo anche lì. «Merda.»
La neve, ormai diventata acqua, ribolliva nella pentola. Il brodo avrebbe dovuto aspettare. Shane si alzò, prese dal suo zaino un coltello e delle bende e buttò tutto dentro il liquido in tumulto. Che altro gli occorreva? Sapone e l'unguento disinfettante, un panno che non aveva. Con una smorfia prese il suo unico ricambio pulito, sarebbe andato bene ugualmente.
* * *
Terminò di pulirsi le braccia e si sfilò la giubba dove erano finiti molti schizzi di sangue. Lanciò uno sguardo disgustato alle sei minuscole sfere di ferro che aveva estratto dai buchi presenti sulla schiena dell'uomo e poi si voltò a guardarlo.
Lo aveva fasciato e avvolto nuovamente nel suo mantello. Lo vedeva rabbrividire, le ciglia frementi. Come era ovvio aspettarsi gli era salita la febbre. Era riuscito a farlo bere e, mentre attendeva che la carne essiccata rilasciasse i suoi succhi nell'acqua posta nuovamente a bollire, si era messo ad osservarlo. Aveva fatto il possibile, ma si chiese ugualmente se quell'uomo sarebbe sopravvissuto alla notte.
A guardarlo meglio si rese conto della strana fisionomia: il fisico aitante lo riportava ad uno dei Sacerdoti Guerrieri dei Templi Corporali, come il suo, ma la pelle era scura, cotta dal sole, segnata da molte cicatrici, i capelli erano biondo miele, molto lunghi e lisci, gli contornavano un viso dai tratti gradevoli, una bocca piena e una mascella lievemente squadrata, folte sopracciglia chiare su occhi misteriosi. Aveva un che di esotico, non avrebbe saputo dire cosa con esattezza, forse tutti quei segni, forse quei colori così caldi che stonavano nell'ambiente in cui l'aveva ritrovato, la montagna d'inverno, dove regnava il bianco, il blu, l'argento.
Bevve un po' di brodo caldo e mangiò i pezzi di carne salata e ammorbidita. Infine fece passare una mano sotto la nuca dell'altro e, con molta pazienza, gli fece sorbire un po' di brodo.
Mentre si occupava di nutrirlo quasi si augurò di ritrovarlo morto al mattino dopo, se non altro lo avrebbe liberato di un grosso peso.
* * *
Per tre giorni lo aveva nutrito, si era accertato di mantenere bassa la febbre e tenere sotto controllo le ferite per evitare infezioni. Per tre giorni lo aveva lavato e mantenuto asciutto. Era uscito di rado dal piccolo rifugio, per prendere la neve o fare scorta di legna e per sistemare le trappole per pernici.
Finalmente l'uomo, poco dopo l'alba del quarto giorno, aveva ripreso conoscenza.
Shane era già in piedi, stava attizzando le braci morenti del fuoco quando avvertì un movimento brusco alla sua destra.
Si voltò e osservò lo straniero quasi sobbalzare sul giaciglio legnoso e tentare precipitosamente di alzarsi. Shane lo aveva legato al letto, per precauzione, per cui non fu troppo sorpreso quando ricadde pesantemente disteso, lo sguardo allarmato i capelli che gli finivano sul viso.
Incrociò per la prima volta occhi d'un castano così chiaro da sembrare quasi dorati, spalancati su di lui. Lo straniero parlò, voce gracchiante, un linguaggio assolutamente incomprensibile, al di fuori di qualche parola vagamente simile, da cui riuscì ad estrapolare il senso delle sue frasi agitate.
Appoggiò il lungo bastone che usava come attizzatoio vicino al basamento di roccia del camino e si avvicinò al letto.
«Mi chiamo Shane, provengo dalla città di Vaeqa. Ti trovi sui Monti di confine. Sei vivo, dovresti ringraziarmi.»
L'uomo sbatté le palpebre, piuttosto confuso. Poi pronunciò un'altra frase, a bassa voce.
Shane fece una leggera smorfia. «A quanto pare abbiamo un problema.» Senza dire altro tornò verso il camino e sedette, prendendo in mano il piatto di legno e ciò che restava della farina, iniziò ad impastarla con un po' d'acqua e quando ottenne un composto piuttosto morbido vi inserì delle bacche di ribes nero, che aveva raccolto il giorno prima e ne fece delle piccole focacce che poggiò sul ripiano di roccia, accanto alle fiamme.
L'uomo rimase disteso, apparentemente calmo, ma Shane aveva notato, con la coda dell'occhio, quanto muovesse piano le braccia, ruotando i polsi per allentare le corde.
Terminò di sistemare i dischi di pasta, poi si alzò e tornò vicino all'altro, chinandosi per sciogliere i nodi. Ricevette un'occhiata decisamente diffidente mentre lo straniero abbassava cautamente le braccia, con una silenziosa smorfia di dolore.
Shane prese la ciotola sbreccata dove aveva sistemato le piccole sfere che aveva estratto dalla spalla dell'altro e si avvicinò per mostrargliele.
Gli occhi nocciola scrutarono accigliati, con cautela lo vide trascinarsi sui gomiti ed emettere una singola parola, sussurrata tra i denti, aveva tutta l'aria di essere un'imprecazione.
«Proprio così, amico.» replicò il Sacerdote di Vaeqa. Allungò un dito e gli tamburellò sopra la fasciatura della spalla. L'uomo seguì il suo gesto e si sfiorò le bende. Iniziò a quel punto a rilassarsi, così si ridistese, sospirando lievemente.
Shane tornò verso le focacce e le girò dall'altro lato, ormai avevano assunto un bel colore dorato e le bacche di ribes emanavano un delicato aroma asprognolo. Tutt'altro che una colazione lussuosa, ma aveva quasi terminato le scorte e nei giorni a venire si sarebbero dovuti accontentare di ben poco.
Sarebbe stato bene che lo straniero desse prova della sua ben piantata fisicità e si rimettesse presto in piedi, se volevano sopravvivere sarebbe stato opportuno rientrare in città al più presto.
* * *
I tentativi di comunicare erano quanto di più sgangherato si potesse immaginare. Shane preferiva tacere, mentre lo straniero che, dopo alcuni tentativi, aveva capito chiamarsi Suncer, aveva la bocca larga, per così dire.
Parlava, gesticolava, per quanto la spalla ferita glielo permettesse e, soprattutto, sorrideva spesso.
Non era ben chiaro da dove venisse, non era riuscito neppure a capire cosa ci facesse in alta montagna vestito come se fosse estate. Ciò che aveva dedotto dai vari approcci fatti in quei giorni era che l'uomo gli era grato per averlo salvato e aiutato, e che stava cercando di imparare la sua lingua. Spesso imitava le sue parole, con un'accentazione improbabile e indicava gli oggetti di riferimento. Shane annuiva, raramente correggeva. Doveva comunque riconoscergli una grande intuitività e una sorprendente capacità di apprendimento.
Anche fisicamente sembrava riprendersi rapidamente, così dopo otto giorni che si trovavano nel rifugio, Shane decise di riprendere la via di casa. Ormai le scorte erano praticamente terminate e il cielo sembrava aver concesso una tregua. Non nevicava dalla mattina di due giorni prima. Buon segno.
Quella sera iniziò a preparare lo zaino, valutando il vestiario che avrebbe potuto condividere con Suncer. Fuori dalla baita di legno e lontano dal camino sarebbe stato terribilmente freddo, avrebbero dovuto trovare un metodo alternativo di scaldarsi.
Quando l'uomo si rese conto di cosa stava facendo si mise seduto sul bordo del giaciglio e lo guardò a lungo, poi indicò verso la porta. «Io, tu, via?»
Shane annuì.
«Io, casa?» continuò l'altro.
Shane preparò un paio di pantaloni e si tolse la giubba, rimanendo con il camiciotto di lana. Sistemò il tutto in fondo al letto. Ad occhio e croce avrebbero dovuto calzargli abbastanza bene. «No, verso Vaeqa, la mia città.»
«Citta?»
«La mia casa.» specificò allora il Sacerdote, poggiandosi una mano sul petto. Poi scosse il capo. «Non ho idea di dove sia la tua.»
L'uomo parve capire. Tacque, allungando una mano verso gli abiti. Lo sguardo improvvisamente cupo e distante.
Quella notte lo sentì muoversi sul giaciglio, probabilmente insonne. Stavano facendo progressi nella comunicazione, ma finché non avesse appreso abbastanza bene la sua lingua sarebbe stato piuttosto complesso capire qualcosa su di lui. E senza sapere nulla sulla sua provenienza e la sua storia personale, sarebbe stato impossibile aiutarlo davvero.
Shane ci rifletté con attenzione. Un uomo che parlava un'altra lingua, con vesti bizzarre e un aspetto strano, trovato svenuto nelle zone selvagge vicino ai Confini. Che la sua casa fosse al di là della frontiera? Difficile a credersi, ma quanti secoli erano ormai che nessuno più vi si avventurava? Quella semplice costatazione gli fece venire i brividi. Ne avrebbe forse dovuto parlare con i governanti della propria città? Tecnicamente era obbligato, ma a quel punto Suncer sarebbe passato in mano a loro e Shane sospettava che non avrebbe avuto una sorte benevola.
«Shane?» fu sorpreso quando si sentì chiamare.
Si voltò lentamente, emergendo dal bozzolo di vestiti e coperta che si era prodotto sul pavimento. Le braci emanavano ancora un lucore tenue e rossastro. Intravide appena la sagoma dell'altro sporto su di lui.
«No dormire?»
«No, io... penso alla strada da percorrere.» mentì. Poi si sollevò a sedere. «Tu, stai bene?»
«Sì.»
«Allora dormi.» Shane si rannicchiò nuovamente sul pavimento. Lo avrebbe portato in città, ma non avrebbe denunciato al governo la sua presenza, almeno non subito. Prima c'era da risolvere il problema della lingua e poi avrebbero deciso come agire. Insieme.
La mattina dopo, quando uscirono dal rifugio, Suncer rimase come paralizzato fuori dalla porta. Il fiato che si condensava davanti al suo volto, gli occhi che saettavano tutt'attorno, guardando, analizzando l'ambiente circostante. Aveva l'aria di uno che si affacciava per la prima volta sopra un burrone senza fondo.
Shane fraintese inizialmente quell'esitazione e gli si affiancò, avvolgendogli un braccio alla vita per sostenerlo, ma l'altro si scostò bruscamente. Mosse un paio di passi e poi si chinò, raccogliendo sul palmo un po' di neve. La avvicinò al viso, la annusò e poi la leccò. Mostrò i denti in una smorfia e fece una sorta di esclamazione nella sua lingua.
«Neve.» spiegò il Sacerdote, comprendendo che quella fosse la prima volta che Suncer vedeva la neve, almeno da lucido.
«Neve.» ripeté l'altro, affondando tutta la mano sul manto bianco e poi ritraendola di scatto con un sibilo, infilandosi l'arto sotto l'ascella.
«La neve ha un aspetto candido e innocente, ma può fare molto male.» sorrise Shane a quella reazione. Suncer lo guardò senza capire, poi scrollò le spalle e si alzò.
Shane fece strada, cercando sentieri facilmente percorribili, spalando la neve e facendo frequenti soste. Mangiarono la carne di pernice cotta la sera prima e bacche essiccate di uva spina, bevvero la neve sciolta sul fuoco. Furono costretti ad accamparsi ben prima del tramonto. Suncer aveva l'aria sfinita e il volto congestionato.
Bevvero brodo caldo, insaporito con carne essiccata e ginepro. Il cibo che fino ad ora Shane aveva dato a Suncer era al limite del mangiabile, ma l'uomo non si era mai lamentato, nemmeno una volta ed aveva sempre mangiato tutto. Anche durante la giornata Shane aveva potuto notare il genere di accorgimenti che aveva tenuto durante la marcia per non perdere il ritmo, l'atteggiamento nei confronti dell'ambiente circostante, indagatore e attento. Suncer era di sicuro un battitore, un viaggiatore, abituato a sopravvivere anche in condizioni difficili. Quelle constatazioni gli fecero chiedere che genere di vita avesse fatto fino ad allora. Tutto sommato sembrava comunque piuttosto giovane, sicuramente più giovane di lui, eppure, tutti quei segni sul suo corpo...
Anche Shane aveva il suo bagaglio di cicatrici, ma probabilmente avevano un'origine diversa da quelle del compagno, o almeno se lo augurava per lui.
Scuotendo il capo per scacciare le troppe domande a cui non avrebbe ancora potuto dare una risposta, si alzò dal posto che aveva scelto per mangiare, prese la coperta dallo zaino e si accostò all'altro.
Suncer lo guardò inizialmente perplesso, poi quando comprese le intenzioni di Shane sembrò quasi tirarsi indietro. «Tu dormire qui?» disse, con tono vagamente allarmato.
Shane sollevò le spalle e stese la coperta. «Sì, se non vuoi congelare stanotte.» Lo afferrò ad un braccio e lo costrinse a distendersi, cingendolo poi da dietro e accostandosi a lui il più possibile. Gli aderì ad un fianco, avvolgendogli strettamente un braccio attorno al petto e infilando una gamba tra le sue. Le teste così vicine che i loro respiri quasi si fusero, bianche nuvolette nell'oscurità calante. Tirò il mantello sopra entrambi e poi si rilassò, avvertendo con piacere il calore dell'altro farsi strada anche in lui.
Suncer era rigido come se fosse stato davvero una statua di ghiaccio. Shane ridacchiò. Un battitore, un viaggiatore, un guerriero, ma, a quanto pareva, non aveva mai assaporato una simile vicinanza fisica con qualcuno. Avrebbe dovuto abituarsi, quello sarebbe stato il loro giaciglio condiviso per tutte le notti future, almeno fino a quando non avessero davvero raggiunto Vaeqa.
Si risvegliò il mattino dopo che la luce era ancora incerta. La testa di Suncer incastonata contro il suo collo e un braccio infilato sotto la giubba, a diretto contatto con la pelle della schiena del Sacerdote. L'uomo dormiva, ne avvertiva il respiro sulla pelle. Da rigido stoccafisso la sera prima, si era avvinghiato a dovere durante la notte. C'era un calore intenso e piacevole tra i loro corpi e, nonostante i muscoli duri e nodosi, si erano allacciati con comodità l'uno all'altro, quasi che fossero abituati da sempre a dormire insieme.
Shane esitò, sbatté le palpebre, osservò il brandello di cielo scuro su cui si intravedevano nuvole argentate sfilacciate tra i rami degli alberi. Avrebbe dovuto scostarsi, alzarsi, accendere il fuoco. Con riluttanza cominciò a muoversi, a districare le braccia e le gambe. Doveva ammettere che l'idea di allontanarsi da quel tepore lo infastidiva.
Si morse le labbra, corrucciato: allontanarsi da quel corpo rilassato contro il suo lo infastidiva, in verità.
Suncer si mosse, mugolò e si rannicchiò di più sotto il mantello.
Shane pensò che, in effetti, dopo così tanto tempo che viaggiava da solo, dormire con qualcuno era stato insolitamente gradevole. Il pensiero non lo rallegrò affatto, era convinto di essere in grado di sopportare la solitudine, dopo la morte di Acris non c'era stato più nessuno al suo fianco e, a parte Acris, non aveva mai avuto degli amici. Per cui, quei sentimenti non erano affatto opportuni, soprattutto se relativi ad uno straniero dalle dubbie origini.
Accese il fuoco e iniziò a preparare la magra colazione. Il fumo e il crepitare finirono con lo svegliare definitivamente l'uomo accanto a lui che si mise seduto con un borbottio, avvolgendosi il mantello fin sopra la testa. «Bangiorno.» borbottò.
«Buongiorno.» rispose Shane, senza alzare lo sguardo.
«Buongiorno.» scandì l'altro.
Non ci furono altre parole tra loro. Mangiarono il magro pasto e ripresero immediatamente il viaggio.
Per tutto il resto della giornata Shane non riuscì a togliersi di dosso la sensazione del corpo di Suncer avvinghiato al suo.
Probabilmente aveva trascorso davvero troppo tempo da solo.
Shane si soffermò ad osservare il paesaggio. Il pendio montano scivolava verso valle tra lucidi prati circondati dai boschi fitti e coste di roccia spigolosa, nude, scintillanti per il ghiaccio. La neve ricopriva ogni cosa, le solide chiome dei faggi e dei frassini, i cespugli fitti di ginepro e pini mughi. Un bianco splendore che rendeva l'aria abbacinante e quasi priva di suoni, il vento leggero sfiorava a malapena i rami curvi sotto il peso della neve e produceva quello che somigliava a tutti gli effetti ad un sospiro. Ma era quiete ciò che trasmetteva. La montagna d'inverno aveva un suono dolce ed un profumo pulito che l'uomo amava oltre ogni dire.
Da quando era morto Acris era diventato il suo posto speciale. In città, al Tempio, sembravano averlo quasi inteso come una punizione. Controllo dei confini, non importava la stagione, non importava se faceva un freddo tale che persino il respiro mutava in una pioggia di cristalli di ghiaccio. Lui, il Senza Compagno, sarebbe dovuto andare ugualmente. Pellicce e cuoio foderato, poche provviste e una mappa approssimativa. I confini sulle montagne erano delimitate solo dai luoghi che nessuno era mai riuscito a raggiungere. Silenzi troppo chiassosi e vie impraticabili, percorsi solo da orsi e capre. Shane però non aveva protestato, non una sola parola, ad ogni ordine era seguita una partenza. Aveva ridisegnato le mappe con punti di riferimento, crocevia, nuovi elementi geografici. Persino il bibliotecario era rimasto a tal punto sorpreso da averne ordinate svariate copie per la biblioteca della città.
Shane sapeva come muoversi, sapeva ormai comprendere ciò che la montagna gli sussurrava. Gli scarsi rifugi presenti erano stati da lui sistemati e resi agibili e comodi. E in quei silenzi, in quelle tempeste o in quelle giornate di fresco sole e di cinguettio frenetico, lui riusciva a tollerare l'assenza del suo unico amico.
Si passò la mano guantata sul viso, scrollandosi di dosso il leggero strato di neve che si era posata sulla barba di qualche giorno e decise di riprendere il cammino.
La luminosità lattiginosa del giorno andava affievolendosi e ad una prima occhiata risultava difficile scorgere il sentiero di traversata che avrebbe dovuto trovarsi in quella zona. La roccia a forma di punta di freccia era ben visibile alla sua sinistra, qualche decina di metri più in basso, inequivocabile la sua cima dipinta di rosso. Ovviamente la pista era stata seppellita dalla neve dei giorni precedenti, persino il laghetto era sparito sotto lo strato bianco, il suo limitare poteva notarsi solo dalla cornice di alberi disposta in un cerchio troppo perfetto attorno ad una spianata totalmente candida.
Sistemò meglio lo zaino che aveva sulle spalle e mosse cautamente i suoi passi. Il rifugio non era lontano, buona cosa raggiungerlo prima che facesse totalmente buio. Grazie alle ciaspole riusciva a muoversi sulla neve fresca con relativa facilità. Scese dalla cuna zigzagando, i due lunghi bastoni lo aiutavano a bilanciarsi. La coltre di neve era morbida e scricchiolava sotto il suo peso. Alto intorno a un metro e novanta, con una corporatura di solidi muscoli, a volte nemmeno le grosse ciaspole erano sufficienti a non farlo affondare, non poteva permettersi distrazioni. Avanzò fino a raggiungere il limitare del lago sepolto e si avviò verso oriente, appena sotto la roccia a punta di freccia, il sentiero ancora invisibile. Un passo dietro l'altro, avrebbe raggiunto il rifugio in poco meno di mezzora. Mentre avanzava qualcosa attirò la sua attenzione. Un rigonfiamento irregolare alla sua sinistra, una roccia affiorante dallo strato bianco? Eppure aveva una forma bizzarra, schiacciata, definita, un po' troppo antropomorfa. Non la ricordava dal suo ultimo passaggio.
Si accostò. Forse uno scherzo della vista e lo schermo della neve che andava gradatamente aumentando, ma gli parve che la roccia respirasse.
I piccoli fiocchi si facevano corposi e numerosi, danzando davanti al suo sguardo come pallide farfalle. La luce sempre meno intensa. Un grosso orso dormiente fuori dalla sua tana? Sarebbe stato più saggio girargli attorno. La roccia, o l'orso, emise infine un mugolio. Decisamente troppo umano per entrambi.
Ma che diavolo? Shane si chinò e spazzolò via la neve con il braccio. Una zazzera bionda, disordinata, pelle d'un insano colore grigiastro. L'uomo era vivo, ma non certo in buone condizioni.
Conficcò i bastoni sullo strato di neve, si tolse lo zaino e terminò di liberare il corpo dallo strato di ghiaccio e neve che lo aveva ricoperto, infine lo girò supino.
Aveva le labbra blu e un pallore assolutamente mortale. Si tolse uno dei guanti e gli sfiorò la gola in cerca del battito cardiaco. Eccolo lì, debole e lento. Il respiro era così fiacco che neanche si condensava in vapore. Le vesti che indossava erano nascoste da strati di fogliame e rametti tenuti insieme da un curioso intreccio di corteccia. Una sorta di vestiario improvvisato, come se lo straniero si fosse ritrovato in alta montagna nudo e impreparato.
Che fosse uno dei banditi che imperversavano in quelle zone? Non era da loro avventurarsi tanto in alto e in quella stagione, ma non poteva certo escluderlo. E se fosse un fuggitivo? Un detenuto scappato dalle prigioni, che aveva tentato la salvezza sulle montagne? Poco furbo da parte sua farlo proprio d'inverno.
«Merda!» imprecò sottovoce. Si tolse la pesante cappa e vi avvolse l'uomo, si piazzò lo zaino sul torace e, sbuffando per lo sforzo, se lo caricò in spalla.
Raggiunse il rifugio quasi due ore dopo. Ansimando per la fatica. Le braccia e le gambe che formicolavano dolorosamente, la faccia immobilizzata dal gelo. Sbatteva le ciglia nel tentativo di togliersi le croste di ghiaccio. Quando il piccolo riparo di legno gli apparve davanti ringraziò tutti gli Antichi Dei, anche se ormai morti e sepolti.
Entrò e depositò il suo gravoso fardello sul ripiano di legno che fungeva da letto. Si tolse nuovamente i guanti per controllargli i segni vitali. Se era morto dopo tutta la fatica che aveva fatto per trasportarlo si sarebbe rimangiato i ringraziamenti divini. Il battito c'era ancora.
Si tolse lo zaino e lo poggiò vicino alla porta. Ora doveva razionalizzare bene il da farsi. Per prima cosa accese il fuoco. La legna vicino al camino era asciutta e pronta. Dovette aprire la cappa e poi provvedere a sistemare le esche. Pochi minuti e le fiamme scoppiettavano, rilasciando nel piccolo ambiente una piacevole luminescenza rossastra. Mise a sciogliere della neve su una pentola e nel frattempo iniziò a togliersi gli strati di abiti che indossava. Il giaccone rivestito di pelliccia, il doppio pantalone di cuoio impermeabile, sganciò le ciaspole e sfilò gli stivali.
L'aria all'interno del rifugio divenne rapidamente calda.
Accese la lampada ad olio e la piazzò accanto al letto e infine si dedicò all'uomo ancora privo di conoscenza. Delinquente o fuggitivo che fosse non poteva certo lasciarlo morire. Il se stesso del passato forse l'avrebbe fatto, ma era cambiato, lo doveva ad Acris.
Tolse il mantello e cominciò sciogliere il rivestimento di foglie e rami per mettere a nudo abiti assolutamente fuori luogo. Pantaloni di un tessuto elastico e leggero, una giacchetta priva di maniche con bottoni argentati, gli stivali avevano le suole rinforzate ma il cuoio era morbido, traforato sulle caviglie. Shane corrucciò la fronte. Da quale oscuro luogo delle Terre Abitate mai proveniva quel tipo? Senza il rivestimento silvano poté notare anche la corporatura straordinariamente muscolosa dello straniero. Ad occhio sembrava alto quanto lui, muscoloso, forse più di lui. Lunghe gambe nerborute, pettorali torniti, grossi muscoli sulle braccia. Quel tipo era un guerriero, proprio come lo era lui, su questo non c'era dubbio. Ma i suoi abiti strambi non lo riportavano a nessuno dei quattro Ordini Guerrieri delle Terre Abitate.
Terminò di spogliarlo per vedere se aveva delle ferite. Numerose le cicatrici sulla pelle, alcune da taglio certamente, altre circolari, piccole e nitide, forse da quadrello, ma difficile a dirsi, l'epidermide sembrava rimarginata come a seguito di una bruciatura, forse era stato torturato con un sottile ferro rovente? Aveva molte escoriazioni e dei brutti tagli sulle braccia e sui polpacci. Lo voltò di schiena e infine notò all'altezza della scapola destra altri fori, solo che la pelle sembrava rossa e grumi di sangue coagulato la costellavano. La ferita sembrava piuttosto fresca. Shane lo fece adagiare a pancia in giù e afferrò la lampada, avvicinandola ai piccoli fori. Da uno di essi, proprio sopra l'osso della spalla, sporgeva appena il bordo di qualcosa di metallico. Il Sacerdote si morse il labbro inferiore, una punta di freccia? Troppo piccola. Un brandello di ferro che avrebbe comunque dovuto togliere, se non voleva che la ferita si infettasse.
Shane osservò con sospetto gli altri due fori e tastò con dita delicate tutt'attorno. Pezzi di metallo anche lì. «Merda.»
La neve, ormai diventata acqua, ribolliva nella pentola. Il brodo avrebbe dovuto aspettare. Shane si alzò, prese dal suo zaino un coltello e delle bende e buttò tutto dentro il liquido in tumulto. Che altro gli occorreva? Sapone e l'unguento disinfettante, un panno che non aveva. Con una smorfia prese il suo unico ricambio pulito, sarebbe andato bene ugualmente.
* * *
Terminò di pulirsi le braccia e si sfilò la giubba dove erano finiti molti schizzi di sangue. Lanciò uno sguardo disgustato alle sei minuscole sfere di ferro che aveva estratto dai buchi presenti sulla schiena dell'uomo e poi si voltò a guardarlo.
Lo aveva fasciato e avvolto nuovamente nel suo mantello. Lo vedeva rabbrividire, le ciglia frementi. Come era ovvio aspettarsi gli era salita la febbre. Era riuscito a farlo bere e, mentre attendeva che la carne essiccata rilasciasse i suoi succhi nell'acqua posta nuovamente a bollire, si era messo ad osservarlo. Aveva fatto il possibile, ma si chiese ugualmente se quell'uomo sarebbe sopravvissuto alla notte.
A guardarlo meglio si rese conto della strana fisionomia: il fisico aitante lo riportava ad uno dei Sacerdoti Guerrieri dei Templi Corporali, come il suo, ma la pelle era scura, cotta dal sole, segnata da molte cicatrici, i capelli erano biondo miele, molto lunghi e lisci, gli contornavano un viso dai tratti gradevoli, una bocca piena e una mascella lievemente squadrata, folte sopracciglia chiare su occhi misteriosi. Aveva un che di esotico, non avrebbe saputo dire cosa con esattezza, forse tutti quei segni, forse quei colori così caldi che stonavano nell'ambiente in cui l'aveva ritrovato, la montagna d'inverno, dove regnava il bianco, il blu, l'argento.
Bevve un po' di brodo caldo e mangiò i pezzi di carne salata e ammorbidita. Infine fece passare una mano sotto la nuca dell'altro e, con molta pazienza, gli fece sorbire un po' di brodo.
Mentre si occupava di nutrirlo quasi si augurò di ritrovarlo morto al mattino dopo, se non altro lo avrebbe liberato di un grosso peso.
* * *
Per tre giorni lo aveva nutrito, si era accertato di mantenere bassa la febbre e tenere sotto controllo le ferite per evitare infezioni. Per tre giorni lo aveva lavato e mantenuto asciutto. Era uscito di rado dal piccolo rifugio, per prendere la neve o fare scorta di legna e per sistemare le trappole per pernici.
Finalmente l'uomo, poco dopo l'alba del quarto giorno, aveva ripreso conoscenza.
Shane era già in piedi, stava attizzando le braci morenti del fuoco quando avvertì un movimento brusco alla sua destra.
Si voltò e osservò lo straniero quasi sobbalzare sul giaciglio legnoso e tentare precipitosamente di alzarsi. Shane lo aveva legato al letto, per precauzione, per cui non fu troppo sorpreso quando ricadde pesantemente disteso, lo sguardo allarmato i capelli che gli finivano sul viso.
Incrociò per la prima volta occhi d'un castano così chiaro da sembrare quasi dorati, spalancati su di lui. Lo straniero parlò, voce gracchiante, un linguaggio assolutamente incomprensibile, al di fuori di qualche parola vagamente simile, da cui riuscì ad estrapolare il senso delle sue frasi agitate.
Appoggiò il lungo bastone che usava come attizzatoio vicino al basamento di roccia del camino e si avvicinò al letto.
«Mi chiamo Shane, provengo dalla città di Vaeqa. Ti trovi sui Monti di confine. Sei vivo, dovresti ringraziarmi.»
L'uomo sbatté le palpebre, piuttosto confuso. Poi pronunciò un'altra frase, a bassa voce.
Shane fece una leggera smorfia. «A quanto pare abbiamo un problema.» Senza dire altro tornò verso il camino e sedette, prendendo in mano il piatto di legno e ciò che restava della farina, iniziò ad impastarla con un po' d'acqua e quando ottenne un composto piuttosto morbido vi inserì delle bacche di ribes nero, che aveva raccolto il giorno prima e ne fece delle piccole focacce che poggiò sul ripiano di roccia, accanto alle fiamme.
L'uomo rimase disteso, apparentemente calmo, ma Shane aveva notato, con la coda dell'occhio, quanto muovesse piano le braccia, ruotando i polsi per allentare le corde.
Terminò di sistemare i dischi di pasta, poi si alzò e tornò vicino all'altro, chinandosi per sciogliere i nodi. Ricevette un'occhiata decisamente diffidente mentre lo straniero abbassava cautamente le braccia, con una silenziosa smorfia di dolore.
Shane prese la ciotola sbreccata dove aveva sistemato le piccole sfere che aveva estratto dalla spalla dell'altro e si avvicinò per mostrargliele.
Gli occhi nocciola scrutarono accigliati, con cautela lo vide trascinarsi sui gomiti ed emettere una singola parola, sussurrata tra i denti, aveva tutta l'aria di essere un'imprecazione.
«Proprio così, amico.» replicò il Sacerdote di Vaeqa. Allungò un dito e gli tamburellò sopra la fasciatura della spalla. L'uomo seguì il suo gesto e si sfiorò le bende. Iniziò a quel punto a rilassarsi, così si ridistese, sospirando lievemente.
Shane tornò verso le focacce e le girò dall'altro lato, ormai avevano assunto un bel colore dorato e le bacche di ribes emanavano un delicato aroma asprognolo. Tutt'altro che una colazione lussuosa, ma aveva quasi terminato le scorte e nei giorni a venire si sarebbero dovuti accontentare di ben poco.
Sarebbe stato bene che lo straniero desse prova della sua ben piantata fisicità e si rimettesse presto in piedi, se volevano sopravvivere sarebbe stato opportuno rientrare in città al più presto.
* * *
I tentativi di comunicare erano quanto di più sgangherato si potesse immaginare. Shane preferiva tacere, mentre lo straniero che, dopo alcuni tentativi, aveva capito chiamarsi Suncer, aveva la bocca larga, per così dire.
Parlava, gesticolava, per quanto la spalla ferita glielo permettesse e, soprattutto, sorrideva spesso.
Non era ben chiaro da dove venisse, non era riuscito neppure a capire cosa ci facesse in alta montagna vestito come se fosse estate. Ciò che aveva dedotto dai vari approcci fatti in quei giorni era che l'uomo gli era grato per averlo salvato e aiutato, e che stava cercando di imparare la sua lingua. Spesso imitava le sue parole, con un'accentazione improbabile e indicava gli oggetti di riferimento. Shane annuiva, raramente correggeva. Doveva comunque riconoscergli una grande intuitività e una sorprendente capacità di apprendimento.
Anche fisicamente sembrava riprendersi rapidamente, così dopo otto giorni che si trovavano nel rifugio, Shane decise di riprendere la via di casa. Ormai le scorte erano praticamente terminate e il cielo sembrava aver concesso una tregua. Non nevicava dalla mattina di due giorni prima. Buon segno.
Quella sera iniziò a preparare lo zaino, valutando il vestiario che avrebbe potuto condividere con Suncer. Fuori dalla baita di legno e lontano dal camino sarebbe stato terribilmente freddo, avrebbero dovuto trovare un metodo alternativo di scaldarsi.
Quando l'uomo si rese conto di cosa stava facendo si mise seduto sul bordo del giaciglio e lo guardò a lungo, poi indicò verso la porta. «Io, tu, via?»
Shane annuì.
«Io, casa?» continuò l'altro.
Shane preparò un paio di pantaloni e si tolse la giubba, rimanendo con il camiciotto di lana. Sistemò il tutto in fondo al letto. Ad occhio e croce avrebbero dovuto calzargli abbastanza bene. «No, verso Vaeqa, la mia città.»
«Citta?»
«La mia casa.» specificò allora il Sacerdote, poggiandosi una mano sul petto. Poi scosse il capo. «Non ho idea di dove sia la tua.»
L'uomo parve capire. Tacque, allungando una mano verso gli abiti. Lo sguardo improvvisamente cupo e distante.
Quella notte lo sentì muoversi sul giaciglio, probabilmente insonne. Stavano facendo progressi nella comunicazione, ma finché non avesse appreso abbastanza bene la sua lingua sarebbe stato piuttosto complesso capire qualcosa su di lui. E senza sapere nulla sulla sua provenienza e la sua storia personale, sarebbe stato impossibile aiutarlo davvero.
Shane ci rifletté con attenzione. Un uomo che parlava un'altra lingua, con vesti bizzarre e un aspetto strano, trovato svenuto nelle zone selvagge vicino ai Confini. Che la sua casa fosse al di là della frontiera? Difficile a credersi, ma quanti secoli erano ormai che nessuno più vi si avventurava? Quella semplice costatazione gli fece venire i brividi. Ne avrebbe forse dovuto parlare con i governanti della propria città? Tecnicamente era obbligato, ma a quel punto Suncer sarebbe passato in mano a loro e Shane sospettava che non avrebbe avuto una sorte benevola.
«Shane?» fu sorpreso quando si sentì chiamare.
Si voltò lentamente, emergendo dal bozzolo di vestiti e coperta che si era prodotto sul pavimento. Le braci emanavano ancora un lucore tenue e rossastro. Intravide appena la sagoma dell'altro sporto su di lui.
«No dormire?»
«No, io... penso alla strada da percorrere.» mentì. Poi si sollevò a sedere. «Tu, stai bene?»
«Sì.»
«Allora dormi.» Shane si rannicchiò nuovamente sul pavimento. Lo avrebbe portato in città, ma non avrebbe denunciato al governo la sua presenza, almeno non subito. Prima c'era da risolvere il problema della lingua e poi avrebbero deciso come agire. Insieme.
La mattina dopo, quando uscirono dal rifugio, Suncer rimase come paralizzato fuori dalla porta. Il fiato che si condensava davanti al suo volto, gli occhi che saettavano tutt'attorno, guardando, analizzando l'ambiente circostante. Aveva l'aria di uno che si affacciava per la prima volta sopra un burrone senza fondo.
Shane fraintese inizialmente quell'esitazione e gli si affiancò, avvolgendogli un braccio alla vita per sostenerlo, ma l'altro si scostò bruscamente. Mosse un paio di passi e poi si chinò, raccogliendo sul palmo un po' di neve. La avvicinò al viso, la annusò e poi la leccò. Mostrò i denti in una smorfia e fece una sorta di esclamazione nella sua lingua.
«Neve.» spiegò il Sacerdote, comprendendo che quella fosse la prima volta che Suncer vedeva la neve, almeno da lucido.
«Neve.» ripeté l'altro, affondando tutta la mano sul manto bianco e poi ritraendola di scatto con un sibilo, infilandosi l'arto sotto l'ascella.
«La neve ha un aspetto candido e innocente, ma può fare molto male.» sorrise Shane a quella reazione. Suncer lo guardò senza capire, poi scrollò le spalle e si alzò.
Shane fece strada, cercando sentieri facilmente percorribili, spalando la neve e facendo frequenti soste. Mangiarono la carne di pernice cotta la sera prima e bacche essiccate di uva spina, bevvero la neve sciolta sul fuoco. Furono costretti ad accamparsi ben prima del tramonto. Suncer aveva l'aria sfinita e il volto congestionato.
Bevvero brodo caldo, insaporito con carne essiccata e ginepro. Il cibo che fino ad ora Shane aveva dato a Suncer era al limite del mangiabile, ma l'uomo non si era mai lamentato, nemmeno una volta ed aveva sempre mangiato tutto. Anche durante la giornata Shane aveva potuto notare il genere di accorgimenti che aveva tenuto durante la marcia per non perdere il ritmo, l'atteggiamento nei confronti dell'ambiente circostante, indagatore e attento. Suncer era di sicuro un battitore, un viaggiatore, abituato a sopravvivere anche in condizioni difficili. Quelle constatazioni gli fecero chiedere che genere di vita avesse fatto fino ad allora. Tutto sommato sembrava comunque piuttosto giovane, sicuramente più giovane di lui, eppure, tutti quei segni sul suo corpo...
Anche Shane aveva il suo bagaglio di cicatrici, ma probabilmente avevano un'origine diversa da quelle del compagno, o almeno se lo augurava per lui.
Scuotendo il capo per scacciare le troppe domande a cui non avrebbe ancora potuto dare una risposta, si alzò dal posto che aveva scelto per mangiare, prese la coperta dallo zaino e si accostò all'altro.
Suncer lo guardò inizialmente perplesso, poi quando comprese le intenzioni di Shane sembrò quasi tirarsi indietro. «Tu dormire qui?» disse, con tono vagamente allarmato.
Shane sollevò le spalle e stese la coperta. «Sì, se non vuoi congelare stanotte.» Lo afferrò ad un braccio e lo costrinse a distendersi, cingendolo poi da dietro e accostandosi a lui il più possibile. Gli aderì ad un fianco, avvolgendogli strettamente un braccio attorno al petto e infilando una gamba tra le sue. Le teste così vicine che i loro respiri quasi si fusero, bianche nuvolette nell'oscurità calante. Tirò il mantello sopra entrambi e poi si rilassò, avvertendo con piacere il calore dell'altro farsi strada anche in lui.
Suncer era rigido come se fosse stato davvero una statua di ghiaccio. Shane ridacchiò. Un battitore, un viaggiatore, un guerriero, ma, a quanto pareva, non aveva mai assaporato una simile vicinanza fisica con qualcuno. Avrebbe dovuto abituarsi, quello sarebbe stato il loro giaciglio condiviso per tutte le notti future, almeno fino a quando non avessero davvero raggiunto Vaeqa.
Si risvegliò il mattino dopo che la luce era ancora incerta. La testa di Suncer incastonata contro il suo collo e un braccio infilato sotto la giubba, a diretto contatto con la pelle della schiena del Sacerdote. L'uomo dormiva, ne avvertiva il respiro sulla pelle. Da rigido stoccafisso la sera prima, si era avvinghiato a dovere durante la notte. C'era un calore intenso e piacevole tra i loro corpi e, nonostante i muscoli duri e nodosi, si erano allacciati con comodità l'uno all'altro, quasi che fossero abituati da sempre a dormire insieme.
Shane esitò, sbatté le palpebre, osservò il brandello di cielo scuro su cui si intravedevano nuvole argentate sfilacciate tra i rami degli alberi. Avrebbe dovuto scostarsi, alzarsi, accendere il fuoco. Con riluttanza cominciò a muoversi, a districare le braccia e le gambe. Doveva ammettere che l'idea di allontanarsi da quel tepore lo infastidiva.
Si morse le labbra, corrucciato: allontanarsi da quel corpo rilassato contro il suo lo infastidiva, in verità.
Suncer si mosse, mugolò e si rannicchiò di più sotto il mantello.
Shane pensò che, in effetti, dopo così tanto tempo che viaggiava da solo, dormire con qualcuno era stato insolitamente gradevole. Il pensiero non lo rallegrò affatto, era convinto di essere in grado di sopportare la solitudine, dopo la morte di Acris non c'era stato più nessuno al suo fianco e, a parte Acris, non aveva mai avuto degli amici. Per cui, quei sentimenti non erano affatto opportuni, soprattutto se relativi ad uno straniero dalle dubbie origini.
Accese il fuoco e iniziò a preparare la magra colazione. Il fumo e il crepitare finirono con lo svegliare definitivamente l'uomo accanto a lui che si mise seduto con un borbottio, avvolgendosi il mantello fin sopra la testa. «Bangiorno.» borbottò.
«Buongiorno.» rispose Shane, senza alzare lo sguardo.
«Buongiorno.» scandì l'altro.
Non ci furono altre parole tra loro. Mangiarono il magro pasto e ripresero immediatamente il viaggio.
Per tutto il resto della giornata Shane non riuscì a togliersi di dosso la sensazione del corpo di Suncer avvinghiato al suo.
Probabilmente aveva trascorso davvero troppo tempo da solo.